Fu quattro o cinque anni fa: un pomeriggio di primavera, piovoso, a Weimar, nello Schloss, alla fine della visita, in una stanza a pianterreno con le pareti coperte di disegni del Cinquecento tedesco. Incapace di accogliere altre impressioni dopo una giornata faticosa, mi avviavo verso l’uscita, quando in un angolo un’immagine mi colpì, mi arrestai. Un uomo nudo, in piedi, a figura intera: magro, le carni vizze, il petto incavato, senza vergogna né fierezza, un’indagine spietata, un giudizio irrevocabile: la decadenza, il vuoto, la fine. Un cartellino lo dava come autoritratto di Dürer, nelle monografie in seguito consultate non l’ho trovato riprodotto. Non so se l’attribuzione fosse fondata: ma l’emozione che la figura mi procurò è ancora viva, nella sua qualità sottile è la stessa che ispira l’Autoritratto come Uomo di dolore del 1522, di impostazione più drammatica, sebbene, mi pare, di minor vigore.
Fu quattro o cinque anni fa: un pomeriggio di primavera, piovoso, a Weimar, nello Schloss, alla fine della visita, in una stanza a pianterreno con le pareti coperte di disegni del Cinquecento tedesco. Incapace di accogliere altre impressioni dopo una giornata faticosa, mi avviavo verso l’uscita, quando in un angolo un’immagine mi colpì, mi arrestai. Un uomo nudo, in piedi, a figura intera: magro, le carni vizze, il petto incavato, senza vergogna né fierezza, un’indagine spietata, un giudizio irrevocabile: la decadenza, il vuoto, la fine. Un cartellino lo dava come autoritratto di Dürer, nelle monografie in seguito consultate non l’ho trovato riprodotto. Non so se l’attribuzione fosse fondata: ma l’emozione che la figura mi procurò è ancora viva, nella sua qualità sottile è la stessa che ispira l’Autoritratto come Uomo di dolore del 1522, di impostazione più drammatica, sebbene, mi pare, di minor vigore.