Dai fasti degli anni Ottanta agli anni bui di Mani pulite, Milano è la metropoli italiana che ha vissuto più intensamente entusiasmo e delusioni dei tempi moderni. Cosa ci attende ora, dopo la sbornia di Expo e le difficoltà della pandemia?
Se nell’ultima tappa italiana di The Passenger, a Napoli, bisognava fare attenzione a evitare lo sguardo esotizzante, a Milano all’opposto ci vuole molto impegno per trovarlo, l’esotico, l’elemento fuori dalle righe, spiazzante. Per scovarlo bisogna abbandonare la narrazione prediletta degli ultimi anni della città accentratrice di successo, talenti e capitali, percorrere altre strade, gettare lo sguardo non solo dove indica il dito delle istituzioni ma anche laddove nulla è cambiato, anzi proprio lì. Nelle periferie che ancora meritano questo titolo e non sono state rebrandizzate come «quartieri» – parola più cool e vendibile – e che ancora parlano del legame con un’industria che non esiste più. In quei casermoni costruiti per gli operai e ora abitati da precari, cantati da trapper di origine maghrebina o ecuadoregna, nei parchi della cerchia esterna dove si tengono riti collettivi che nessuno decanta. Ma anche le zone più centrali albergano storie che vogliono essere ascoltate, dal mondo della moda, sempre descritto con i crismi del comunicato stampa e mai realmente raccontato, alle tante comunità straniere che contribuiscono al benessere della città. A guardarla bene, Milano è soprattutto sfuggente.
Dai fasti degli anni Ottanta agli anni bui di Mani pulite, Milano è la metropoli italiana che ha vissuto più intensamente entusiasmo e delusioni dei tempi moderni. Cosa ci attende ora, dopo la sbornia di Expo e le difficoltà della pandemia?
Se nell’ultima tappa italiana di The Passenger, a Napoli, bisognava fare attenzione a evitare lo sguardo esotizzante, a Milano all’opposto ci vuole molto impegno per trovarlo, l’esotico, l’elemento fuori dalle righe, spiazzante. Per scovarlo bisogna abbandonare la narrazione prediletta degli ultimi anni della città accentratrice di successo, talenti e capitali, percorrere altre strade, gettare lo sguardo non solo dove indica il dito delle istituzioni ma anche laddove nulla è cambiato, anzi proprio lì. Nelle periferie che ancora meritano questo titolo e non sono state rebrandizzate come «quartieri» – parola più cool e vendibile – e che ancora parlano del legame con un’industria che non esiste più. In quei casermoni costruiti per gli operai e ora abitati da precari, cantati da trapper di origine maghrebina o ecuadoregna, nei parchi della cerchia esterna dove si tengono riti collettivi che nessuno decanta. Ma anche le zone più centrali albergano storie che vogliono essere ascoltate, dal mondo della moda, sempre descritto con i crismi del comunicato stampa e mai realmente raccontato, alle tante comunità straniere che contribuiscono al benessere della città. A guardarla bene, Milano è soprattutto sfuggente.